sabato

Un supplemento di anima e di rabbia

Le analisi politiche e politologiche sono strade maestre per comprendere i risultati delle tornate elettorali e per inquadrare in maniera costruttiva le sconfitte. Ma non sono tutto.
La razionalità politica del voto non è sempre deducibile e, nell’Era Berlusconiana, essa è veramente solo una delle categorie da interpellare per provare a formulare delle considerazioni. Io, difettando per competenza ed inclinazione, lascio fare questo lavoro delicatissimo ai tanti politologi che affollano gli editoriali e le prime pagine dei quotidiani.
Credo anche, però, che non tutto possa essere riassunto in un’analisi tecnica e, soprattutto, in un’analisi sterile dei dati non credo possa esserci la risposta ad una domanda ancora più profonda, intima, proiettata, in parte, sul piano esistenziale: “Perché ci sentiamo gli Sconfitti?”
Sconfitti con la “S” maiuscola. Pieni di tutta la retorica che c’è dietro la sconfitta. Sconfitti perché non compresi; sconfitti per idealismo; sconfitti per senso di responsabilità. I più critici diranno: “Sconfitti perché abbiamo governato male o, meglio, sconfitti perché non siamo riusciti a comunicare le cose buone fatte”. Il risultato è lo stesso: abbiamo perso. Non solo. Abbiamo subito modificato uno status in sostanza. La sconfitta per gli Altri è un periodo, un momento, il lato oscuro di una ruota che gira. Per noi è la nostra stessa sostanza.
Questo è il dato elettorale più deprimente!
Nello splendido film “I Cento Passi” Peppino dice chiaramente al suo mentore: “Nelle nostre sezioni l’unica cosa che s’impara è la sconfitta”. È vero, l’unica cosa che s’impara è la sconfitta nel senso che la si interiorizza e, di conseguenza, si percepisce la vittoria, l’essere maggioranza, l’avere piena cittadinanza nella società come un risultato neanche ipotizzabile.
Come facciamo ad attrarre se non ci sentiamo capaci di alcuna provocazione?
È giusto presentarsi come forza di governo, se ciò vuol dire essere il cambiamento che si vuol vedere nel mondo, e, far percepire, che si ha la forza per compierlo. Se invece tutto si traduce nella continua mediazione o nel pensare che la correttezza delle azioni di governo sia di per sé un’identità siamo destinati a divenire, ancor di più, il Partito dei Burocrati.
Basta analizzare la maniacale importanza che diamo ai riti e alle liturgie della politica avendone perso il significato e il senso.
È la forma che ci dà sostanza e, di conseguenza, non c’è nulla di più avvincente di una bella guerra sulle preferenze, un chiudersi ancor di più all’interno della cerchia degli Illuminati per spartirsi cosa? Una bella sconfitta.
Stiamo arrivando al paradosso che virtù dirigenziali siano la rassegnazione e il silenzio.
Scrolliamoci di dosso tutto questo. Iniziamo a riappropriarci delle cose basilari.
Iniziamo dalla Rabbia. La rabbia non come violenza, invettiva, cecità ed intolleranza.
La Rabbia come vita.
La Rabbia non è un urlo. Semmai un grido. Un grido di lotta per chi soffre, per chi sta rimanendo indietro in questa crisi economia, per i migranti, per chi potrà essere licenziato senza giusta causa, per le donne assunte con le dimissioni in bianco, per chi deve prostituirsi intellettualmente per un assegno di ricerca da fame, per le vittime dei raid razzisti della Roma di Alemanno, per il diritto dell’acqua di restare un diritto, per il diritto delle giovani generazioni di ricevere un’Istruzione completa, libera e pubblica.
In sintesi, torniamo a vivere l’esistenzialità della nostra scelta politica!
A questo punto, chi non ha più un supplemento di Anima e di Rabbia da donare a questo Partito e a questo Paese è meglio che si faccia da parte perché con la sola geometria della politica, del mestiere, delle preferenze sarà impossibile abbattere l’architettura Berlusconiana che è, in prima istanza, una narrazione emotiva dell’Italia.
Che le persone tornino a credere alla nostre parole guardando i nostri occhi, gli occhi della nostra Rabbia comune!

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